Record di Neet in Italia: giovani senza più speranze che non cercano più lavoro

NEET che sta per Not in Education, Employment or Training, un concetto che rischia di sconfinare in quello di “bamboccione”

Nell’ambito della condizione di svantaggio dei giovani nel mondo del lavoro è emerso, anche dopo il 2008, un tema apparentemente nuovo, ovvero quello dei NEET, cioè di quei giovani che, pur senza essere inseriti in un percorso scolastico o formativo, non risultano occupati nelle rilevazioni statistiche, tema specioso perché distorce fortemente le analisi sociali ed economiche, oltre alle politiche attive.

La nuova visibilità di questo fenomeno si è abbinata con la fortuna mediatica dell’acronimo inglese utilizzato, ovvero NEET che sta per Not in Education, Employment or Training, spingendo il pubblico a percepirlo come una nuova emergenza, nonostante si tratti di una realtà che era robusta anche in passato ma meno evidente. Con la crescita del fenomeno negli ultimi anni, alimentata dall’acuirsi crisi, ha riattualizzato un problema che sembrava residuale, o almeno in via di ridimensionamento per molti analisti pubblici.

Il senza dubbio questa nuova categoria mostra che, in contesti nazionali diversi, cambia il suo significato, riflettendo le emergenze percepite in alcuni paesi come più gravi e i soggetti considerati come più a rischio. Si problematizza, inoltre, il legame apparentemente meccanico fra la dimensione del fenomeno e il dinamismo dei mercati del lavoro nazionali. Emerge infatti il legame fra questi aspetti e i modi di considerare e istituzionalizzare la gioventù tipici delle diverse tradizioni culturali, che a loro volta influenzano le politiche sociali e del lavoro dedicate ai giovani, dosate diversamente nei vari paesi, e che dunque li espongono ai rischi di mercato in misura differente. Nel quadro ormai drammatico della condizione giovanile italiana, che ha introdotto nel discorso pubblico l’idea di una “generazione perduta”, una visione individualizzata dei problemi rischia di sfociare nella ricerca di un colpevole, finendo con l’identificare proprio nei giovani i responsabili del proprio disagio: il concetto di NEET rischia di sconfinare in quello di “bamboccione”.

Se si può parlare di merito di questa categoria, tuttavia, si deve far riferimento all’avere spostato l’attenzione dal tema della disoccupazione, strettamente intesa come ricerca di lavoro non coronata dal successo, a quello più ampio dell’inoccupazione, con la sua componente di inattività, vero elemento distintivo fra le condizioni dell’Italia e della media europea. Si evidenzia, ad uno studio approfondito, l’articolazione del fenomeno NEET identificando le componenti (scolarizzazione, inoccupazione delle donne autoctone e delle migranti) che lo influenzano nel corso del tempo. Il ciclo, discendente fino al 2007 e ascendente negli anni della crisi, dei NEET è in realtà comune alle principali società europee, ma il livello italiano è costantemente più alto, a causa delle dimensioni tradizionalmente elevate dell’inattività, legata a fenomeni di disoccupazione di lunga durata, di scoraggiamento, e all’autoesclusione dal mercato del lavoro delle donne, investite, specie in presenza di bassi titoli di studio, da una gestione esclusiva delle responsabilità familiari. Il ritardo dei giovani italiani nell’inserirsi nel lavoro, spesso ricondotto al tema di una più generale “sindrome del ritardo”, è in effetti un fenomeno non recente e molto studiato.

Ma quali condizioni specifiche spingono verso l’alto il numero dei giovani NEET, in Italia? La ricerca statistica di alcuni centri di studio italiani, evidenzia elementi comuni al mondo dei NEET, ma anche una importante articolazione interna, che conferma il carattere in parte meccanico e poco esplicativo di quest’aggregazione statistica. In Italia, così come altrove in Europa, l’aggregato statistico-economico dei NEET racchiude infatti al suo interno un mondo giovanile composito ed eterogeneo. Le differenze riguardano elementi oggettivi quali il genere, l’età, il livello di istruzione, la tipologia di percorso di studio, le caratteristiche della famiglia d’origine, il luogo di residenza; ma anche elementi più soggettivi, quali le aspettative e le strategie scolastiche e professionali. Emergono tuttavia alcuni elementi che consentono di individuare sottogruppi dai profili più affini, sia per quanto riguarda i percorsi concreti, sia con riferimento alla percezione della propria condizione, alle aspettative, alle attese per il futuro.

La presenza di condizioni di forte disagio economico è rara fra i giovani oggetto di studio, che in generale, al di là delle pur diverse condizioni socio-familiari, condividono l’appartenenza a un ceto medio e medio – basso: il caso di un giovane che vive in affitto con la madre separata, che ha problemi nel pagare ogni mese affitto e bollette è isolato, mentre quasi tutti vivono in case di proprietà dei genitori, oppure in affitto con altri studenti, ma finanziati dai genitori. In questo quadro, nella maggior parte dei casi, le scelte di vita, a partire da quelle scolastiche, sono state impostate in un contesto di relativa libertà, che ha permesso ai ragazzi di viverle come scelte personali.

Le scelte scolastiche sono infatti percepite, spesso, come passaggi importanti di una strategia finalizzata al miglioramento, rispetto ai genitori, non dello status economico – da intendersi come un obiettivo di difficile attuazione nel contesto attuale – ma del livello di istruzione e di qualificazione professionale. Una strategia che possiamo definire “di ceto medio” non tanto nel senso di una ricerca di tenuta o di mobilità sociale intergenerazionale sul terreno economico, quanto in quello di un miglioramento rispetto ai genitori dei livelli di istruzione, intesi da un lato come strumenti di autorealizzazione e arricchimento professionale, da perseguire di per sé, dall’altro come risorse che nel lungo periodo potrebbero acquistare un valore anche in termini di posizione professionale e di guadagno. La decisione sulle scuole superiori emerge come il prodotto di una vocazione personale, fatto salvo il caso di un intervento più o meno lungimirante dei genitori quando i ragazzi sono incerti sulla scelta da fare. Agli occhi del campione intervistato, l’altro elemento che ha fortemente condizionato tale decisione è costituito dai caratteri di un sistema scolastico percepito spesso come inadeguato, incapace di indirizzare e sviluppare le loro vocazioni, soprattutto per la sua mancanza di concretezza, per la distanza dal mondo del lavoro, e spesso per la sua disorganizzazione. Molti fra i giovani che hanno imboccato percorsi tecnici e professionali sono critici sulla qualità di queste scuole.

La decisione sul corso di studi universitario è, per chi è arrivato a prenderla al netto delle spinte di contesto, lo snodo cruciale del percorso formativo, ma è influenzata dagli interessi emersi durante il periodo delle scuole superiori. La scelta di una facoltà umanistica è quella più frequente nel gruppo dei giovani: fra i tanti laureati solo una minima parte ha una laurea di profilo diverso. I percorsi umanistici emergono dalla ricerca come elementi chiave del processo di intrappolamento dei giovani nella condizione di NEET. La frequente vocazione umanistica appare tuttavia, se non costruita, rafforzata dal percorso scolastico precedente: essa è infatti prefigurata da un’esperienza nelle scuole medie in cui si era manifestato un sentimento di incompatibilità con la matematica. Si può anzi affermare che il cosiddetto ”odio per la matematica” è una sorta di sindrome di massa fra i ragazzi, fra cui i più lucidi sottolineano il ruolo negativo nel costruirla di una modalità di insegnamento troppo fredda e astratta, in rapporto la come essa venga insegnata. Non tutti, inoltre, condividono nella stessa misura questo orientamento riflessivo e critico, segnato da una precisa percezione dell’importanza della “scelta” personale. Ed è, non casualmente, dal gruppo dei ragazzi con livelli di istruzione intermedi, che non hanno imboccato il percorso universitario, che emergono modi di guardare al passato più opachi e deterministi, nei quali la percezione dei propri limiti, o di quelli della scuola, è sdrammatizzata e mitigata da capacità adattive e razionalizzazioni a posteriori, coerenti con un orientamento meno riflessivo. Soprattutto fra i giovani diplomati, che hanno puntato a un titolo di studio immediatamente spendibile sul mercato, il racconto è più distaccato e succinto. E in alcuni casi il valore della normalità e il senso del limite emergono come dati fondanti di un proprio orientamento verso la vita. Anche il genere, genus, è una variabile che distingue i comportamenti dei giovani: sono infatti soprattutto le ragazze a restituire l’immagine di itinerari faticosi ma consapevoli, orientati al miglioramento e alla progressiva acquisizione di un capitale sociale e professionale variegato ma non incoerente, purtroppo. Sia che queste siano in possesso di lauree umanistiche sia che abbiano maturato, già nella scuola superiore, competenze legate alla cura e all’assistenza sociale, spendibili oltre che nel lavoro retribuito nel volontariato.

L’analisi dei percorsi educativi dei giovani, presi in considerazione nello studio, conferma che ci sono molti modi di essere NEET. Un dato comune a queste storie di disagio professionale è tuttavia costituito da una diffusa percezione dell’incapacità della scuola di fornire competenze rapidamente spendibili nel lavoro, provocando nei giovani reazioni diverse, più rassegnate e passive in qualche caso, ma in molti decisamente agguerrite nel supplire alle lacune scolastiche con l’esperienza del campo. Se è stato detto recentemente che più dei figli, sono i genitori ad essere “bamboccioni”, possiamo aggiungere alla luce di queste testimonianze che la scuola italiana è essa stessa “bambocciona”. Anche le strategie di ricerca del lavoro si distinguono in relazione al genere e al percorso di istruzione. E in quest’ambito l’età, le esperienze pregresse, e la durata della ricerca sono variabili di particolare importanza, che finiscono per creare, sotto l’apparenza di una comune percezione di sé come persone che cercano lavoro, differenze importanti nella percezione delle proprie possibilità e nell’intensità delle azioni di ricerca. Quello della discrasia fra percezione della propria condizione e caratteristiche “oggettive” definite dalle convenzioni statistiche, è uno degli aspetti più interessanti che emerge dall’indagine esplorativa sui NEET e di cui occorre tenere conto nella lettura e nell’analisi degli aggregati statistici. La questione emerge, soprattutto, proprio con riferimento al tema della ricerca di lavoro: la maggior parte dei ragazzi ha dichiarato di essere alla ricerca di un’occupazione, ma non tutti hanno realizzato un’azione di ricerca nei giorni precedenti l’intervista. Una quota tutt’altro che irrilevante dei giovani coinvolti nell’indagine, dunque, si dichiara in cerca di lavoro ma, secondo i criteri utilizzati nelle statistiche, non lo è (o non lo è più).

I più attivi, quotidianamente alla ricerca di lavoro, sono coloro che si sono messi in cerca da poco. Con il passare del tempo, l’intensità tende a sfumare e le azioni si fanno meno frequenti, fino a scivolare, inconsapevolmente, nell’inattività. L’indagine conferma che nella ricerca di lavoro i giovani prediligono i canali informali e l’iniziativa personale, a prescindere dal loro profilo socio-anagrafico e dai loro obiettivi professionali. L’uso più frequente di questi canali – soprattutto rispetto agli intermediari, sia pubblici che privati – è giustificato dal fatto che i giovani li ritengono più efficaci. Il giudizio sull’efficacia apre un altro tema interessante, quello relativo agli elementi utilizzati per formulare le valutazioni. Infatti, si osserva che i giovani hanno le idee molto chiare sull’efficacia dei canali di ricerca. Ma le valutazioni, spesso così tranchant, non sono formulate sulla base dell’esperienza personale, quanto su un immaginario collettivo, costruito non raramente sui “sentito dire” e sugli stereotipi. Dalle testimonianze emerge un uso di internet e della rete ben più diffuso e capillare rispetto al quadro ricostruito con i dati dell’indagine Istat Multiscopo. Pur non disponendo degli elementi necessari a spiegare le differenze, che in parte sono da ricondurre alle caratteristiche del gruppo indagato e ad eventuali fenomeni di distorsione causati dalle modalità di selezione dei casi di studio, è probabile che la fotografia scattata con i dati 2006-2008 sia stata modificata dall’agire congiunto di due fenomeni: uno è indubbiamente il livello di penetrazione delle tecnologie, particolarmente rapida fra le giovani generazioni; l’altro la stringente crisi economica che, rendendo più faticosa la ricerca, ha spinto i ragazzi ad usare tutti i canali disponibili.

Nella transizione scuola-lavoro, come è spesso evidenziato, i giovani lamentano frequentemente la distanza fra il mondo del lavoro e il sistema dell’istruzione, da cui si esce con molte conoscenze teoriche e poche esperienze da spendere. Il tema tuttavia è piuttosto complesso. In particolare, è interessante osservare che il sistema dei tirocini e degli stage è diffuso: la maggior parte degli intervistati ne ha fatti a diversi livelli del percorso curricolare. Seppure si tratti di una prassi diffusa, la valutazione degli stage e dei tirocini da parte del gruppo indagato è generalmente negativa: per l’uso improprio da parte dei datori di lavoro; per la scarsa coerenza con il percorso formativo; per i contenuti, secondo alcuni poco interessanti e stimolanti. L’indagine, per contro, restituisce un’immagine positiva del servizio civile e delle esperienze nel volontariato. Chi ha fatto l’esperienza del servizio civile ne mette in evidenza molti elementi positivi: le modalità di selezione trasparenti; la possibilità di maturare un’esperienza di spessore e/o coerente con il proprio percorso formativo; l’opportunità di scoprire i propri talenti e i propri interessi in una sorta di laboratorio di orientamento in progress. Altrettanto positivi sono i giudizi sul mondo del volontariato e dell’associazionismo, dove le esperienze maturate sono un modo per occupare il tempo e per sentirsi utili, anche nei casi di prolungata inattività. Il mondo dell’associazionismo, inoltre, è un luogo importante in cui acquisire esperienze e competenze che arricchiscono il curriculum e possono essere successivamente spese sul mercato del lavoro.

La questione della mancanza di esperienza rappresenta un refrain costante nelle interviste realizzate che restituiscono, da questo punto di vista, un quadro “schizofrenico”. Alla mancanza di esperienza, che i ragazzi descrivono coralmente come uno degli elementi maggiormente responsabile della loro condizione di non occupazione – o di occupazione precaria e arrangiata – si contrappone un quadro inatteso, fatto di contatti frequenti con il mercato e ricco di esperienze di lavoro. Per quanto attiene ai percorsi e alle esperienze, si individuano due diversi gruppi di giovani. Da un lato ci sono coloro che sono entrati sul mercato con lavori “strutturati”, più o meno duraturi, e inquadrati con contratti regolari. Si tratta di ragazze e ragazzi con livelli di istruzione medio – bassi, che non hanno mai avuto un progetto formativo a lungo termine e che provengono da famiglie che non li hanno adeguatamente sostenuti e motivati nel loro percorso di studi. Se non ci fosse stata la crisi, o meglio se non fossero sopraggiunti altri “incidenti di percorso”, questi ragazzi, con molte probabilità, sarebbero ancora occupati. Chi ha perso il lavoro dopo un’esperienza strutturata si sente completamente inadeguato poiché, pur essendo ancora giovane, ha cominciato a lavorare in un mercato del lavoro con caratteristiche e regole profondamente diverse da quelle attuali. Per questo gruppo, dunque, la ricerca di lavoro presenta delle grosse criticità, poiché alle difficoltà oggettive si somma il senso di inadeguatezza e di spiazzamento.

Gli altri giovani, per contro, sono entrati in contatto con il mercato del lavoro attraverso esperienze meno strutturate e più frammentate. Si tratta di ragazzi che hanno proseguito il loro percorso di istruzione dopo la scuola superiore, iscrivendosi all’università: alcuni si sono laureati; altri hanno interrotto gli studi. Le esperienze lavorative dei ragazzi che appartengono a questo secondo gruppo

hanno molti elementi in comune: i rapporti con il mercato sono occasionali e frammentati; le posizioni e gli ambiti di lavoro sono a cavallo fra l’economia formale e informale; per quanto riguarda le professioni svolte, i ragazzi raccontano di esperienze come camerieri, barman, baby sitter, dog sitter, addetti al volantinaggio, commessi, collaboratori di call center, ecc. Queste esperienze, che molti considerano una modalità temporanea in attesa di qualcosa di diverso, rischiano tuttavia di diventare una condizione permanente, l’unico modo per essere occupati. Alcune storie mettono in luce la sensazione di vischiosità che caratterizza questo modo di lavorare, a cui si accompagna un rischio di “intrappolamento nella precarietà”.

L’indagine realizzata sui NEET ha preso in esame anche l’area delle attese e delle aspirazioni che, come noto, rappresentano un elemento cruciale nella relazione fra giovani e lavoro. Per una larga parte dei ragazzi, il lavoro ha una valenza essenzialmente strumentale, confermando come con la crisi, venendo sempre più a mancare la sicurezza lavorativa, gli aspetti primari del lavoro, legati alla sfera dei benefici che da esso è possibile trarre, hanno preso il sopravvento sulla dimensione di autorealizzazione. Fra gli intervistati, naturalmente, sopravvive anche l’idea che il lavoro sia, o possa essere, qualcosa di più. In particolare, si osserva che il lavoro è percepito come una forma di realizzazione e di arricchimento personale, non solo fra coloro che hanno sostenuto un investimento formativo, ma anche se questo è il modello di riferimento familiare. La crisi condiziona non solo il sistema valoriale, ma anche le aspirazioni lavorative e gli obiettivi professionali, che nella maggior parte dei casi risultano decisamente limitati.

Ma cosa pensano i giovani NEET della loro condizione? Come vedono se stessi e i loro coetanei? Coerentemente con il quadro descritto sin qui, nessuno di loro si definirebbe “bamboccione” e pochi utilizzerebbero tale espressione per i propri coetanei. I giovani coinvolti nell’indagine mostrano una capacità di lettura e di analisi della situazione della loro generazione lucida e precisa, in grado di cogliere perfettamente le difficoltà che caratterizzano il percorso di transizione verso l’età adulta e l’autonomia. Non di pari livello si rivela invece la capacità di avanzare idee e proposte, che spesso sono piuttosto ovvie e denotano una scarsa, quasi nulla, consapevolezza di come la crisi abbia modificato il ruolo del settore pubblico e le sue possibilità di intervento. Da un lato i giovani chiedono allo Stato e al settore pubblico di intervenire direttamente o indirettamente, con sovvenzioni alle aziende, per creare opportunità di lavoro per le giovani generazioni. Dall’altro lato, molti giovani chiedono una maggiore regolamentazione dei contratti e della modalità di lavoro, in modo da eliminare il precariato ed impedire l’uso improprio di stage e tirocini. Dalla maggior parte delle interviste traspare infine una evidente disaffezione per la classe politica, una lucida e profonda consapevolezza della situazione di crisi e delle difficoltà che la società sta attraversando e, con altrettanta forza, il tema dello scontro generazionale. L’idea diffusa e ricorrente fra i NEET coinvolti, infatti, è che i giovani non trovano lavoro perché le generazioni precedenti hanno allungato la loro condizione di attività.

A cura del Dott. Antonio Ansalone

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