Carlo Crescitelli è un ometto dallo sguardo intelligente. Cammina a passo svelto, ma allo stesso tempo riesce a passeggiare con piacevolissima disinvoltura. Ti prende a braccetto, per dirti meglio tutto ciò che considera stimolante. Questo leggero contatto fisico ha, più o meno, lo stesso effetto che dovrebbe suscitare una parola evidenziata nel bel mezzo di un libro: significa fai attenzione, è importante.Con delicatezza, però.
La prima volta che c’incontriamo di persona – dopo diversi e simpatici scambi “social” – ci rendiamo subito conto che cavalchiamo la stessa lunghezza d’onda. L’intervista la facciamo via mail, ma può tranquillamente considerarsi come il frutto di una lunga chiacchierata fatta al tavolino di un bar davanti a un comunissimo caffè e a un altrettanto elegante tè, in un’anonima e soleggiata mattinata d’inizio marzo.
Rompiamo subito il ghiaccio: che valore dai agli scrittori, nel 2018? Che significato ha, per te, questo mestiere?
Per meglio identificare oggi chi – come te, come me – intraprende e porta avanti questo particolare tipo di attività e relazioni, non utilizzerei tanto la definizione di “scrittore”, che trovo un pochino riduttiva, quanto quella, assai più ampia e a mio avviso calzante, di “autore”. Noi tutti che scriviamo – per meglio dire creiamo e veicoliamo contenuti – in varie e diverse sedi: fisiche, virtuali, audiovisive, dovunque in genere riusciamo a raggiungere e incontrare il nostro pubblico – possiamo e anzi dobbiamo a tutti gli effetti considerarci autori che raccontano, interpretano e rappresentano i temi cruciali del nostro tempo confrontandosi con la società su di essi. È esattamente questo oggi per me il nostro ruolo: né più, né meno.
Hai avuto una vita piena d’avventure, come i personaggi dei tuoi libri. Rifaresti tutto? E perché?
Eh, avventure … ognuno a suo modo ne ha vissute e ne vive, tanti molte più di quanto abbia potuto fare io. Ma sì, che rifarei quasi tutto, grossi rimpianti non ne ho: all’epoca mi è servito per crescere e capire, e oggi mi sono abituato a ritenermi un uomo fortunato, per essere riuscito a vivere di volta in volta nel corso degli anni un po’ come volevo, a essere chi e come volevo, sia ieri sia oggi. Una questione non solo di piccole o grandi intraprendenze personali, o di particolari percorsi individuali di saggezza, ma anche di vicende positive e fortunate che, lo ammetto, tutte insieme hanno fatto di me l’uomo soddisfatto e tendenzialmente ben disposto verso il mondo che sono ora; e credimi, non è poco questo, averlo ricevuto dalla vita.
Come giudichi il mondo dell’editoria, oggi?
Lo vedo nel mezzo di un guado imbarazzante: perso tra le mille lusinghe del web, catturato dalle infinite nuove opportunità e potenzialità che la rete indiscutibilmente offre, ma ancora purtroppo drammaticamente alla ricerca di una sua nuova identità. E quando – presto ormai, ahimè, temo – questa sbornia collettiva da visibilità on line terminerà, il problema emergerà ancor di più in tutte le sue proporzioni: l’aver smantellato in fretta e furia ogni reale e stabile punto di riferimento, di metodo e di valore – ad esclusivo vantaggio di uno sterile, vuoto e impotente teatrino mediatico – ci farà tutti amaramente riflettere su quanto abbiamo incautamente e improvvidamente delegato a questo subdolo nuovo processo di concentrazione degli operatori e dei messaggi culturali. Sì, penso proprio che saremo costretti a rivedere molte cose e a ricominciarne di nuovo daccapo, quando sarà. Frattanto, chi vivrà vedrà.
Passiamo alla tua ultima fatica,”Settanta Revisited” (Terebinto Edizioni). Quanto credi siano stati importanti quegli anni e quanto lungo è, secondo te, il loro riflesso sul 2018?
Gli anni Settanta sono stati uno dei veri spartiacque del Novecento: un decennio nel quale forse per la prima volta, dalla fine della guerra, le nostre società incominciavano finalmente ad allontanarsi dalle dinamiche della povertà, e contemporaneamente già si profilavano le prime conquiste tecnologiche e di diritti umani che ancora oggi qualificano il nostro mondo. La mia generazione la conosce bene, per averla personalmente vissuta, questa strana, ma anche bella, sensazione di essere nati in un’epoca e di ritrovarsi a vivere oggi in un’altra, diversa eppur indiscutibilmente figlia di quella.
Banale, ma d’effetto: perché comprare il tuo libro?
Proprio per capire che se oggi, nel bene e nel male, siamo così, in fondo lo dobbiamo a come eravamo allora. E per esserne consapevoli ogni volta che, in modalità più o meno inconscia, ci riferiamo a quegli anni parodiandoli nostro malgrado. Sì, perché capita spesso anche questo: per nostra ignoranza, o meglio per nostro difetto di memoria. Dunque bisogna rimediare, recuperando una volta per tutte il senso profondo di quel tempo andato.
In “Settanta Revisited” fai camminare, di pari passo, le grandi rivoluzioni di quegli anni con le tue, personali: dall’infanzia all’adolescenza fino ad arrivare a rivolgerti all’ “anziano rincattivito di questi anni millenovecentoduemili”, come recita parte del titolo del tuo libro. Quanto diversa pensi sarebbe stata la tua vita in un’altra epoca storica?
Singolare quesito, questo, che mi dipinge e mi fa sentire come una sorta di crononauta … non lo so se sarebbe stata poi così diversa, una mia vita vissuta tutta prima, o tutta dopo i Settanta, perché in fondo le varie sensibilità umane preesistono e sopravvivono a cavallo delle epoche; e dunque anch’io, pur in tutt’altri contesti, forse sarei stato o diventato più o meno la stessa persona: non credi?
Domanda prevedibile, ma interessante da fare agli scrittori: quali autori hanno influenzato, inevitabilmente, il tuo modo di fare letteratura?
Ed eccola, la domanda da un milione di dollari! Ma fortunatamente ho le idee molto chiare … Franz Kafka, per la sua cupa ma vera lettura di un mondo insensato e pericoloso (banalizzo per sintetizzare, ovviamente); Hermann Hesse, con il suo ottimismo sognante e tuttavia concreto, rivolto all’uomo e al futuro nonostante tutto; Italo Calvino, le cui mirabili sintesi, fatte di ferrea logica ed appassionanti vissuti, bene riassumono molte delle chiavi esistenziali del nostro tempo. Ecco, direi che le emozioni più coinvolgenti, e sconvolgenti, le ho sempre trovate e vissute principalmente fra le loro per me indimenticabili pagine.
Cosa vuol dire per te “scrivere libri” in una città come Avellino e quali consigli daresti a chi imbocca ora questa strada?
Anzitutto quello di non considerare la situazione di Avellino troppo diversa da altre, né per pregi né per difetti. Mi accade quotidianamente, nel corso delle attività di promozione del mio lavoro letterario, di entrare in contatto con territori tra loro assai differenti, di avere interlocuzioni sia a Nord che a Sud, in ambienti tanto metropolitani e sofisticati, quanto provinciali e rurali se non remoti. E forse è proprio questo, l’unico vero tratto distintivo, quello tra centro e periferia italiana: e Avellino, a conti fatti, non è che una delle tante periferie d’Italia, con le mille malinconie, sogni, illusioni e disillusioni che tutte le caratterizzano. Perciò mai commettere l’errore di sentirsi speciali, o peggio ancora vittime, per il solo fatto di essere geograficamente lontani da un ipotetico zenit: perché tutti abbiamo sempre qualcosa da dire, ed al tempo stesso tanto da apprendere. Lavorare qui, anzi per meglio dire lavorare da qui – perché non bisogna mai comunque chiudersi la porta verso l’esterno, pena una pesante autolimitazione – può essere persino interessante e gratificante: per una certa anche ingenua attenzione che si riceve per il proprio operato, per una gradevole, positiva curiosità dalla quale ci si sente spesso circondati. L’importante è non darsi troppe patenti di unicità, perché alla fine nessun autore e nessun territorio è davvero unico in tutto, e tenerlo presente aiuta a comunicare e a comunicarsi meglio.