La normativa nazionale in materia di tossicodipendenza ed AIDS prevede che i soggetti sottoposti a misura detentiva, hanno gli stessi trattamenti terapeutici offerti ai cittadini italiani in carico ai SER.D delle aziende sanitarie locali. Ma il diritto alla salute può contrastare con l’incompatibilità penitenziaria? Certo i servizi territoriali garantiscono la cura, ma chi garantisce l’inclusione sociale del malato ristretto?
La UOT SER.D dell’area penale garantisce il collegamento con le UOT SER.D di provenienza dei soggetti tossicodipendenti per assicurare, la continuità delle terapie farmacologiche e psicosociali avviate.
Hanno diritto all’assistenza della UOT SER.D tutti i detenuti che all’atto dell’Ingresso in istituto si dichiarano tossicodipendenti o abituali consumatori di sostanze stupefacenti. Il servizio collobora cone l’UEPE ed è in collegamento con le ICAT.
Tra le varie patologie in carcere, una delle più complesse è quella da infezione da HIV, l’assistenza ai detenuti affetti da Aids va garantita con una costante fornitura dei farmaci antivirali. Il detenuto affetto da AIDS conclamata può chiedere al magistrato di sorveglianza ai sensi dell’articolo 47-quater nella l. 354/1975, la “detenzione domiciliare per soggetti affetti da Aids o grave deficienza immunitaria” Con l’inserimento dell’art. 47-quater nella l. 354/1975 ad opera della l. 231/1999, il legislatore ha voluto consentire ai soggetti affetti da aids o da grave deficienza immunitaria, accertate ai sensi dell’articolo 286-bis, comma 2, del codice di procedura penale, e che hanno in corso o intendono intraprendere un programma di cura e assistenza presso le unità operative di malattie infettive ospedaliere ed universitarie o altre unità operative prevalentemente impegnate secondo i piani regionali nell’assistenza ai casi di aids, la possibilità di accedere alle misure alternative o di comunità previste dagli articoli 47 (affidamento in prova al servizio sociale) e 47-ter (detenzione domiciliare), anche oltre i limiti di pena ivi previsti. Questa misura detentiva, va incontro al diritto alla salute del detenuto, che molto spesso a causa della immunodeficienza conclamata vive con difficoltà il regime penitenziario, tanto da non viverne le attività rieducative, soffrendo dei gravi pregiudizi e dell’isolamento dei ristretti, i quali molto evitano il contatto con il malato per paura di una possibile infezione.
E’ sulla trasmissione del virus che vorrei rammendare, che essa è pericolosa soltanto attraverso il contatto con i seguenti liquidi biologici: sangue, sperma, secrezioni vaginali e latte materno. Bisognerebbe superare certi stereotipi, perchè in alcune istituzioni essi ghettizzano, fino alla negazione della dignità umana e del diritto alla salute. Un detenuto malato di AIDA rischia l’esclusione sociale due volte: sia delle libertà sia della socializzazione. Più diritti, più umanità nelle carceri italiane.