Caro Francesco, di Fausto Baldassarre

Cultura – Ciò che appare non è. Il Caro Francesco non è l’epifenomeno di un’epistola paterna, un’autocelebrazione o una dedica. Il Caro Francesco è l’elogio del figlio invisibile e dell’amore intangibile. Perché se una sofferenza dilania l’uomo, questa è la consapevolezza di un’assenza. Non c’è un figlio dietro ad un nome, c’è un intero nucleo famigliare che si presenta nei versi asciutti di un uomo che genera parole dalle sue lagrime.

Al lettore non è consentito entrare nella cassaforte delle motivazioni, ma ciò che rimane illuminato è un sentimento inespresso, un’abortività emozionale rilasciata nei versi delle tristi festività che si susseguono.

Se Enea prendeva in braccio Anchise, qui il padre immagina di prendere in braccio Ascanio: “Figlio, portandoti sulle spalle, come l’antico eroe, abbiamo fondato la nostra città”.

E dalla mitologia il giro di giostra si fa veloce, “sopra la tavola sospesa, su due funi: il gioco della vita”. L’altalena che anima e muove le pagine di versi, che si immerge nel panta rei del “tra le mani il filo d’acqua di un ruscello…scorreva la vita”. Andranno avanti i versi e i suoi giorni, tra i “fuochi d’artificio” e le foglie autunnali, il bianco di una neve rassicurante e una Speranzache ha il sapore di una illusione già delusa, ma resiste al tempo del no, portandosi avanti con le sue forze “un giorno ci incontreremo”.

E se il tramonto del padre di Recalcati mette in discussione il ruolo, con il suo conflitto e il trauma che ne deriva, ciò a cui allude Fausto Baldassarre è raccolto in “Abbiamo tutti almeno una volta guardato il mare aspettando che qualcosa da lì ritornasse. E qualcosa ritorna sempre dal mare”.

Ma questa volta il punto di vista non è del figlio. Questa volta è un Padre che attende invano un ritorno “ti vedo Figlio nel banco di scuola, sul campo di gioco vincere la tua partita”.

Il Padre ricerca gli occhi del Figlio in quel mondo che cammina celere verso il nonsodove, ricerca il Figlio illuminato da una luce vicino ad un letto che non è un talamo e non genera un riposo. Una costante e tormentata ricerca, più del sé che fuori di sé. Perché il desiderio rimane evidente, ma mai esuberante, perché la distanza non gli impedisce un vincolo d’ “amore di padre” che nel suo divenire si accresce così come il Figlio cresce.

La scenografia dell’ultimo atto è quella di una solitudine che richiama un francescano rapporto naturalistico; ciò che nel tormentato animo paterno ingenera una pacificazione interiore che illumina la flebile fiamma di una mai abbandonata Speranza.

A CURA di Graziella Di Grezialibro fausto

foto cinemaitaliano

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